24 marzo 1944... mio Padre PILO ALBERTELLI
Nel’44, quando morì mio padre Pilo, avevo 11 anni. Quell’anno, nel carattere, divenni uomo perché l’eredità di affetti e di esempi era pesante per un fanciullo.
Nei mesi dal settembre ’43 al marzo ’44 io non compresi perché mio padre fosse diverso dagli altri. Aveva una vita strana. A casa stava pochissimo e non parlava mai di quello che aveva fatto. Certo mi sembrava anomalo che passassimo da un appartamento all’altro dopo brevi periodi. Sembrava che ci nascondessimo da qualcuno. Infatti fuggivamo in un orario vicino al coprifuoco di corsa con mia madre che ci teneva per mano.
Di quel tempo ricordo il bombardamento di S.Lorenzo, quello di Via Bari dove un tram fu colpito restando fermo li come un monumento di tragedia, gli incontri di mio padre nel salotto di casa con gente sconosciuta che parlava piano, fumava e andava via presto. Tutto questo era una vicenda vissuta da un adolescente che comprendeva che esisteva un segreto che non poteva sapere.
Morire è un atto naturale, ma quando si muore in modo violento nel buio di una grotta lasciando di se solo un cadavere indistinto, il dramma per la moglie e i figli per gli anni a venire resta profondo e non si riesce a mandarlo via.
Resta il ricordo vivo in molti altri che lo amavano e quando li incontravi dicevano all’amico vicino”E’ il figlio di Pilo” e tu non sapevi se le parole ti facevano bene o ti facevano male.
Mio padre era un bell’uomo, alto, distinto, coltissimo e di grande fascino. Morì giovane a trentasette anni ma in un breve periodo fu capace di lasciare un’eredità di affetti e di nobiltà d’animo e un esempio di vita dedicata agli ideali, alla scuola e alla lotta che non muore negli animi liberi.
A Roma, a Parma e a Livorno non solo è ricordato con tre scuole e tre strade a lui titolate ma non c’è anno che professori e studenti non ne parlino con affetto e ammirazione.
Questo avviene anche perché mio padre fu apostolo nell’insegnamento di libertà attraverso le sue lezioni di filosofia e contemporaneamente attivo nella vita a dimostrarne la verità. Molti suoi alunni scelsero, sulla base delle sue lezioni, la via dell’onore ossia la lotta nella Resistenza.
A vent’anni iniziò a combattere il fascismo, fu incarcerato, condannato a cinque anni di confino, perseguitato dalla polizia qualunque cosa facesse e ovunque si trovasse. Mia madre diceva che quando passeggiavano da fidanzati erano sempre in tre.
Tutti gli anni trenta furono da lui dedicati alla scuola e alle pubblicazioni sulla filosofia greca, ancora oggi attuali. Nel ’41 lasciò, per essere più libero nell’azione, l’insegnamento presso il Liceo ginnasio Umberto I°, che oggi è a lui titolato. Ed è importante che io rilevi che nel primo dopoguerra fu tolto il nome di un Re ad un grande Istituto statale per mettervi il nome di un professore.
Fu a S.Paolo l’otto settembre, iniziando ad usare un’arma, lui di animo mite. Così da allora il professore visse un’esistenza da ribelle partecipando ad azioni contro i nazisti, trasportando fucili e “chiodi a quattro punte” e insegnando ai compagni di lotta, molti dei quali operai, artigiani e soldati, i concetti della fede democratica ed i metodi per affermarli.Da comandante di tutte le formazioni armate del Partito d’Azione fu infaticabile, coraggioso, imprendibile.
Fino al primo marzo del ’44 quando in Largo S.Susanna un compagno lo prese sottobraccio. Lui non sapeva che era il segnale di un rinnegato che lo aveva venduto per denaro alla Banda Kock. Lo portarono alla Pensione Oltremare, luogo segreto ed illegale di tortura.
Non parlò e fu inviato dopo venti giorni a Regina Coeli ferito e stremato.
Lo vedemmo il 21 nel carcere per una visita accordata a mia madre.
Era quasi irriconoscibile. Non riusciva ad alzarsi dalla panca. Noi non avevamo lacrime da versare. Solo lo sguardo esprimeva a mia madre la fierezza per il dovere speso e a noi il dispiacere per averci dovuto lasciare.
E venne buio.
Per tanti giorni a Roma non si seppe cosa era successo in quelle cave.
Mia madre andò al carcere tutti i giorni dopo il 24 marzo ma le dicevano
”è prigioniero” e le consegnavano degli effetti tra i quali libri e camicie insanguinate.
Ma arrivò ad ogni famiglia una lettera in tedesco dal comando nazista. Mia madre, che non conosceva la lingua, telefonò ad una amica. Così la certezza della morte arrivò sul filo, implacabile.
Quando giunse il giorno della Liberazione e vedevo dal balcone sfilare le truppe alleate, pensavo al babbo assente in un giorno sognato tutta la vita da coloro che si battono per un Paese giusto e libero.
[ Guido Albertelli ]